I come imperfezione II

“Ho un modo di lavorare molto poco tecnologico. Matite per creare irregolarità, poi i lavori artistici più rifiniti sono un misto di acquerello, tempera e inchiostro. Sono sicura che molto di quello che faccio sarebbe più facile se usassi alcuni programmi al computer,  ma quello che non mi piace in molte illustrazioni contemporanee è che sono troppo perfette. Anche se sono una perfezionista ci sono molte irregolarità  leggere  e difetti e questo è bello. Sembra fatto a mano.”

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“Mi piace molto la grafica. E’ la stessa ragione per cui mi diverto a disegnare la facciata dei negozi: mi piace il misto di colori, dettagli, segni e scritte. Questo da una forza, un’energia grafica. Tutte le volte che faccio la copertina di un libro scrivo con i miei caratteri. E’ qualcosa che risulta molto bello quando è preciso così è un’area  dove posso sfogare le mie fisse, le mie tendenze perfezioniste!” Emily Sutton

C come copertina II

“Non cercate di essere originali. Cercate di essere bravi.”

“Una buona soluzione, oltre a essere giusta, deve avere il potenziale della longevità. Non penso che si possa fare un design della permanenza. Si progetta per la funzione, per l’utilità, l’adeguatezza, la giustezza, la bellezza. La Permanenza riguarda Dio.”

“L’intuizione gioca una parte significativa nel design, così come nella vita. È la fase iniziale di ogni lavoro creativo[…]  La cosa importante è poi la decisione-se è giusta o sbagliata quell’intuizione, se seguirla oppure no.”

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Paul Rand

C come copertina

Di solito si dice di non giudicare il libro dalla copertina. Eppure le copertine (avendo un debole per la bellezza), mi attirano. E soprattutto le copertine di due volumetti che lessi anni fa, che riportavano le fotografie della scrittrice Maeve Brennan: così incantevole che non seppi resistere. Fu un bell’incontro, con una scrittrice preziosa che presta ascolto al mondo, un mondo pieno di nostalgia e desiderio.

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Ecco l’incipit di un suo racconto, Un sacro terrore:

“Era l’addetta alla toilette per signore del tranquillo Royal Hotel di Dublino. Mary Ramsay, voce ruvida, mani ruvide, maniere ruvide in tutti i modi possibili. Con quella lingua ti scorticava vivo, dicevano all’hotel. Tutti avevano paura di lei.

Nella toilette per signore, se per caso le fosse accaduto di darti le spalle (magari per prendere un asciugamano, o la spazzola per i vestiti), avresti visto quel suo grande deretano ballonzolare per la stanza. Era tormentata dall’artrite, alle gambe, alle braccia, ovunque. Aveva dolori a stare in piedi e a stare seduta, e quando rimaneva ferma per un certo tempo la rigidità la costringeva ad alzarsi e a muoversi. Le sue larghe pantofole da uomo, tagliate ai lati per renderle ancor più comode, le facevano i piedi piatti; e poi iniziavano le sue grosse gambe; tutte avvolte in calze di lana nera, s’insinuavano sotto la gonna, fuori dalla vista, in profondità inimmaginabili e in un’oscurità di pieghe di carne vezzeggiata. Era bella tonda, quella lì.”