R come resistere II

 

Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno scritto un agile ma intenso e illuminante saggio che mi aiuta sempre a rimettere in ordine la prospettiva quando mi trovo ciclicamente disallineata con ciò che mi circonda: L’epoca delle passioni tristi.

Dalla quarta di copertina:

“I servizi di psichiatria vedono crescere il numero di giovani che accusano forme di disagio psichico. Un fatto allarmante, che più che il segnale di un aumento delle patologie, è il sintomo di un malessere generale che permea la società. Un fenomeno che costringe a interrogarci su che cosa si basi la nostra società, su quali siano le cause delle paure che ci portano a rinchiuderci in noi stessi.

Gli autori di questo libro sono due psichiatri che operano nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza. Preoccupati dalla richiesta crescente di aiuto rivolta loro, hanno voluto interrogarsi sulla reale entità e sulle cause di un apparente massiccio diffondersi delle patologie psichiche tra i giovani. Un viaggio che li ha condotti alla scoperta di un malessere diffuso, di una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali. Viviamo in un’epoca  dominata da quelle che Spinosa chiamava le “passioni tristi”: un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere “armando” i nostri figli.

I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua a educarli come se questa crisi non ci fosse, ma la fede nel progresso è sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri. Tutto deve servire a qualcosa e questo utilitarismo si riverbera sui giovani e li plasma.

Per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati. ”

Ed ecco qualche passaggio, sebbene non renda appieno l’idea di quello che questo saggio può offrire:

“Le passioni tristi, l’impotenza e il fatalismo non mancano di un certo fascino. E’ una tentazione farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica che, dalla minaccia nucleare alla minaccia terroristica, cala come un manto a ricoprire ogni altra realtà. E’ a questo che ciascuno di noi deve resistere…creando. Infatti sappiamo bene che le passioni tristi sono una costruzione, un modo di interpretare il reale e non il reale stesso. Non possiamo far altro che arretrare di fronte allo sviluppo di pratiche gioiose.”

“Pensiamo infine che, come diceva Antonio Gramsci, occorra saper conciliare l’ottimismo della volontà con il pessimismo della ragione…Con questo stato d’animo intendiamo sviluppare, di fronte al dilagare delle passioni tristi, una prassi governata dalle passioni gioiose.”

“[…]oggi per essere al servizio della vita è necessario praticare un certo grado di resistenza. Resistere significa anche opporsi e scontrarsi, ma non dimentichiamo che, prima di tutto, resistere è creare.”

 

 

R come riflesso

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Vivian Maier

” Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo in volo fra Parigi e Monaco di Baviera.

All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano o arancione zen.

Inquadrato dalla ristretta cornice ovoidale dell’oblò il paesaggio gli parlava del giorno e della notte, dei confini fra i mondi della terra e dell’aria e da ultimo, allorché si accese una luce nella carlinga e su quell’olografia boreale apparve il riflesso del suo volto appesantito e affaticato, anche del sé. La sua faccia, quella che gli altri riconoscevano da anni come “lui” – e che a lui invece appariva ogni giorno più strana, poiché l’immagine che conservava del proprio volto era sempre e immortalmente quella del sé giovane e del sé ragazzo – una volta di più gli parve strana. Continuava a pensarsi e a vedersi come l’innocente, come colui che è incapace di fare del male e di sbagliare, ma l’immagine che vedeva contro quello sfondo acceso era semplicemente il viso di una persona non più tanto giovane, con pochi capelli fini in testa, gli occhi gonfi, le labbra turgide un po’ cascanti, la pelle degli zigomi screziata di capillari come le guance cupree di suo padre. In sostanza un viso che subiva, come quello di ogni altro, la corruzione e i segni del tempo.

Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni. E’ ben consapevole di non avere una età comunemente definita matura o addirittura anziana. Ma sa di non essere più giovane. I suoi compagni di università si sono per la maggior parte sposati, hanno figli, una casa, una professione più o meno retribuita. Quando li incontra, le rare volte in cui torna nella casa dei suoi genitori, nella casa in cui è nato e da cui è fuggito con il pretesto degli studi universitari, li vede sempre più distanti da sé. Immersi in problemi che non sono i suoi. Sia i vecchi amici, sia lui, pagano le tasse, fanno le vacanze estive, devono pensare all’assicurazione dell’automobile. Ma quando si trovano occasionalmente a parlarne lui capisce che si tratta di incombenze del tutto differenti e che, nelle rispettive esistenze, rivestono ruoli assolutamente distanti. Così, privato ogni giorno del contatto con l’ambiente in cui è cresciuto, distaccato dal rassicurante divenire di una piccola comunità, lui si sente sempre più solo, o meglio, sempre più diverso. Ha una disponibilità di tempo che gli altri non hanno. E già questo è diversità. Svolge una professione artistica che anche i suoi cosiddetti colleghi svolgono ognuno in modo differente. Anche questo accresce la sua diversità. Non è radicato in nessuna città. Non ha una famiglia, non ha figli, non ha una propria casa riconoscibile come “il focolare domestico”. Una diversità ancora. Ma soprattutto non ha un compagno, è scapolo, è solo.” da Camere separate di Pier Vittorio Tondelli

R come ribrezzo

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Il folle di Lorenzo Viani

“Credo che la fonte di ogni ispirazione sia la strada, chi non è stato vagabondo non può affermare l’identità delle cose mie.”

“Visitando l’opera mia per meglio penetrarne l’intimo spirito, è necessario sapere l’identità effettiva di anima che io sento di avere coi vagabondi e coi déplacé la comunanza di vita che io ho col popolo, il quale mi espresse dalle sue viscere, e da cui non mi sono mai mai staccato, perché col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi.”

Ed ecco l’incipit di un racconto di Viani (essendosi dedicato sia alla pittura che alla letteratura), “Carnot e Prometeo” in Storie di Vàgeri:

“Carnot era un gobbo leale e reale: calzolaio ed anarchico. Uno di quei gobbi rari ai quali si poteva dire sulla faccia, senza vedergliela scurire, le parole: popone, galappione, gomitolo, arcolaio, truciolo: Giocandoci a briscola non si correva il rischio di esser divorati con gli occhi, se si battezzava: gobbo il fante.

Per questa concezione, diremo così, democratica della gobba, Carnot era guardato in cagnesco dagli altri gobbi del paese: da quei tali canarini che, pur essendo, com’ essi soglion dire con tortuoso eufemismo, un po’ curvi di spalle, pretendono per esempio, di essere più alti e più dritti di voi, anche se la vostra statura raggiunge quella di un corazziere e il vostro atteggiamento è marziale come quello di un paletto di vigna. Carnot era circondato da tale odio che, io credo, se nel paese ci fosse stata una società segreta di gobbi, entro la quale avesse funzionato un tribunale marziale, sarebbe stato condannato, per lo meno, al taglio della gobba col segacchio. Ma Carnot, dell’ira dei suoi uguali, tanto temuta dai più, se ne fregava altamente.

[…] Un po’ mi madre aveva ragione: Carnot a prima vista, faceva ribrezzo. Dalla vita in su era come un troncone d’albero bugnato e nodoso che poggiasse su due stangoni legnosi e questi su due piedi lunghi; il trocantere superava lo sterno al vertice del quale si schiacciava la testa; le mandibole parevano saldate con le clavicole, gli zigomi si slargavano appiattiti come quelli di uno scimmione, gli occhi folgoravano con un tono brillante di cielo turchino. Ma ci voleva altro per vincere l’orrore della bocca larga, irta di denti sconnessi, accavallati che si apriva sotto come una spelonca! Non parliamo delle braccia: quelle strapiombavano giù, smagrite, fino ai nodelli; per di più i capelli di Carnot erano rossi some la ruggine. Il bicchiere traboccava con una parola: anarchico!

A detta delle donna, era il più sperverso tra gli sgalerati del Prometeo.

[…] Il Prometeo era il ricettacolo di tutti i trasandati, di tutti gli audaci, di tutti i pazzi, dei morsicati dell’inquietudine, degli arsi dal delirio, degli assetati di tempeste, dei vagabondi senza destino. Le lettere nere, cubitali, drammatiche, scritte sopra un tavolone: –Prometeo– erano come la calamita per tutta la mitraglia della strada.

Là convenivano i catecumeni della fede nuova, i veggenti, i profeti, gli scrocconi, i traditori, i santi!”

R come rubare

“I poeti immaturi imitano; i poeti maturi rubano; i cattivi poeti rovinano ciò che prendono, mentre quelli buoni ne traggono qualcosa di meglio, o almeno qualcosa di diverso. Il buon poeta amalgama ciò che ruba in un sentire complesso che risulta unico, assolutamente diverso da ciò da cui era stato tratto.”

da Philip Massinger, in Il bosco sacro di T.S.Eliot

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Marcel Duchamp

R come rosso

Quanti quadri Paul Klee ha costruito intorno al colore rosso?

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Mito floreale

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Fuga in rosso

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Pesce rosso

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Il palloncino rosso

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Giardino a Tunisi

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Sguardo rosso

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Fuoco di sera

 “Il rosso è associato con l’idea di virilità, di stimolo, di pericolo e di eccitazione sessuale. È il colore del sangue, del fuoco,della passione e dell’aggressività, quello più violento ed elettrizzante.” da Betty Edwards, L’arte del colore.

In Mito floreale il rosso lo leggo come sangue generatore, fecondo e passionale. In Sguardo rosso invece il rosso è aggressività, inquietudine sottolineato com’è dalle linee spezzate e aguzze.

Ma negli altri quadri vedo il rosso come punto di equilibrio della composizione. Un rosso equilibrato e sereno.

Sono convinta che la simbologia dei colori sia solo in parte vera perché bisogna vedere il colore in che contesto è inserito, da cosa è circondato. Ritengo comunque il testo di Betty Edwards interessante e stimolante, ma le generalizzazioni spesso mi lasciano perplessa.