P come povertà

“Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.” dall’articolo Il rimedio è la povertà di Goffredo Parise, 1974.

Riletto in Globalist 2.0

P come Pistoia

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“Che città, a quei tempi, Pistoia: viatici, funerali, campane a morto, campane a festa, fanfare, bisbigli, bisbigli, bisbigli; e monti, bellissimi, turchini, a cingerla da est a ovest, alitando, quella pungevolezza d’aria odorosa, un frizzo incitante; e venditori ambulanti: «Bollenti che fumano…: chi ne mangia uno, ne mangia due…», e mendicanti sullo zoccolo di monumenti equestri, o sui gradini delle chiese. Uno, Cianino, passava il lunedì; era piccolo come un vecchio bimbo ridente. Ripeteva il mio babbo: «Finché esisterà un solo mendicante…». Vecchia frase? Frase fatta? Ma il suo ardore era nuovo; e intatta la sua fede:«…nessuno avrà il diritto d’essere felice».

E i nomi di alcune strade. Via del “T”, via del Pizzicore, via Abbipazienza…; e il giardino pubblico di piazza Mazzini, col busto di Cino: una pena a vedergli il naso rotto, a lui, un poeta; e l’ora rituale del passeggio, al tramonto, con le ragazze da marito, due passi avanti alle mamme e alle zie; e i tanti odori. Ma esisteranno ancora? Ogni terrazza versava torrenti di glicine; e che gara, fra chi aveva orti e giardini, per la piantina che nessuno ce l’ha, reseda, vaniglia…Mai più visti mughetti così veementi e altrettanto carichi di profumo. […]

E poi la chiesa della Madonna. Quella cupola che, quasi incombente sulla mia casa, mi persuadeva della sua magia, senza che ne comprendessi la bellezza. E i disgeli, all’inizio della primavera, che rigavano di bianco diamante i miei monti. E la scoperta, dico scoperta, di alcuni fiori.

[…]Basterebbe una strada, via Ripa del Sale, a farmi tenere tutta la città in mezzo al petto. In pendio, stretta, linda, come se ogni passante fosse il primo, ambiziosa di un’antichità ben custodita; e il passo vi risonava facendo cantare il lastrico.” da Ritratto in piedi di Gianna Manzini

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Grazie per la foto a Carlo Rossi e al suo bellissimo blog, Territori del ‘900

P come poco

“Quando erano sole, di solito erano felici, nonostante l’aria squallida che emanava dal loro pallore, dalla loro serietà e dalla loro miseria. Avevano così poco, sapevano così poche cose, erano state in così pochi posti e avevano incontrato così poche persone, le loro esistenze erano tanto vuote che non avevano ancora imparato ad avere molti desideri. Durante la guerra le loro scuole erano state sfollate in campagna. Ma loro non ci erano andate, ed erano state istruite dalla madre. Questa si vantava, non senza fondamento, che esse sapessero più di storia, geografia, matematica e religione  di quanto non avrebbero appreso in qualsiasi scuola. Ma nel vicinato non erano rimasti altri bambini, e così, per divertirsi, dovevano contare unicamente su loro stesse. Non litigavano e non bisticciavano mai e andavano quasi sempre d’accordo. […]

Questo viaggio a Pendizack era la più grande avventura della loro vita. Ne erano addirittura stordite, come se una fiaba fosse divenuta improvvisamente realtà. Una settimana prima avrebbero creduto impossibile avere degli amici come i Gifford. Ora sembrava scomparsa la barriera fra il possibile e l’impossibile.” da La festa di Margaret Kennedy

P come perno

“Fanny, che molto tempo prima aveva sposato un certo Mr Skeffington, da cui aveva divorziato per ragioni che considerava assolutamente fondamentali, benché non avesse pensato a lui nemmeno una volta per anni, iniziò con sua grande sorpresa a pensarlo in continuazione. Se chiudeva gli occhi a colazione lo rivedeva oltre il vassoio del pesce e ormai, pur non chiudendo affatto gli occhi, lo rivedeva praticamente oltre qualsiasi oggetto.

Ciò che in particolare la disturbava era il fatto che non vi fosse alcun vassoio del pesce. soltanto durante il piuttosto breve regno di Mr Skeffington quale marito vi era stato del pesce per colazione; essendo egli un uomo attaccato alle tradizioni, al quale piaceva vedere ancora sulla tavola ciò che aveva sempre visto in gioventù. Con la sua scomparsa sparì anche il piatto di portata del pesce, d’argento massiccio, tenuto caldo dal supporto elettrico; non perché l’avesse portato con sé – era troppo infelice per pensare alle suppellettili – ma per il fatto che la colazione di Fanny, dal giorno della partenza del marito, consisteva in mezzo pompelmo.

Naturalmente era in buona misura preoccupata per il fatto di rivedere sia lui che il piatto in maniera tanto nitida, ben sapendo che né lui né il piatto fossero presenti. A tale proposito si era quasi decisa a consultare un dottore ma, non essendo particolarmente ben disposta alle visite dei medici, pensò di aspettare un po’. Poiché, dopo tutto, ragionò Fanny che si considerava una donna molto assennata, stava per avvicinarsi il suo cinquantesimo compleanno, e nel raggiungere una pietra miliare così importante, così esortativa alla sobrietà, cosa vi era di più naturale che concentrarsi sui propri pensieri e rimestare tra i ricordi? Ma come, rimestando tra i ricordi, si chiedeva, evitare di incrociare Mr Skeffington? Era stato, lo ammetteva, il perno centrale della sua vita. Era soltanto grazie alle rendite che le aveva assegnato – rendite di un uomo estremamente ricco ed estremamente amorevole – che ora si ritrovava così facoltosa ed era solo grazie alle sue infedeltà, – ma si dovrebbero mai ringraziare le infedeltà? Beh, poco importa – che si trovava libera.” incipit di Mr Skeffington di Elizabeth von Arnim