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O come oblio II
O come oblio
O come occhiali
“Penso sempre a cosa significa indossare gli occhiali da vista. Quando ci si abitua alle lenti non si sa fino a che punto si potrebbe davvero vedere. Penso a tutte le persone che esistevano prima che gli occhiali fossero inventati. Deve essere stato strano perché ognuno vedeva in modo diverso a seconda di come vedevano i propri occhi. Ora, gli occhiali standardizzano la visione di tutti a 10 decimi. Questo è un esempio di come tutti quanti diventiamo simili. Ognuno potrebbe vedere a diversi livelli, se non fosse per gli occhiali.”
Andy Warhol
Mondrian’s Glasses & Pipe di André Kertész
O come odore
“Era come una stazione degli autobus, un posto abbandonato, con i sedili tipo le carrozze dei vecchi treni della B.&O., le piattaforme della metropolitana, le stazioni della polizia. Univa insieme la caratteristica aleatoria e l’atmosfera caotica di un terminal pubblico con la sensazione di terrore che si percepisce immediatamente all’ultima tappa prima di una catastrofe.
Era un buco tetro, che puzzava di cuoi sintetico e disinfettante, ed entrambi gli odori sembrava venissero dal materiale graffiato e rovinato dei sedili allineati su tre pareti. Puzzava delle ceneri di tabacco che inondavano i due portacenere di metallo pensili. Sull’orlo cromato di uno dei due, splendeva un mozzicone umido di sigaro simile a un pezzo di carne masticata. C’era l’odore dei gusci delle noccioline e delle carte cerate di caramelle che imbrattavano il pavimento, l’odore di vecchi giornali, secco, d’inchiostro, soffocante come quello di un urinale, l’odore di sudore d’ascelle e di inguini e di schiene e di facce, che si spandeva e seccava nell’aria priva di vita, l’odore di vestiti-dei detergenti di cui erano imbevuti i tessuti che si diffondevano orrendamente nell’aria calda e dolciastra, pungendo le narici come spine-tutte le essudazioni della pelle umana, un bouquet di essenza animale, che fluiva intorno, si seccava, ma lasciava nella stanza un peculiare e inestirpabile odore di disperazione, come se le sostanze chimiche si fossero trasformate in puro spirito, in una sorta di particolare ascensione.
A ridosso della quarta parete era sistemato un tavolo traballante sul quale c’erano alcune riviste malandate. Le pagine di una svolazzavano per la folata di calore proveniente dallo sfiatatoio di una scatola di metallo sospesa al soffitto. La luce che arrivava dalle lampade del soffitto era acre e accecante come un respiro malato.
In quella stanza c’era un’evidente confusione dei sensi. L’odore diventava colore, il colore diventava odore. Il muto fissava il muto così intensamente che avrebbero potuto ascoltarsi con gli occhi, e l’ascolto diventava innaturalmente acuto, pur nella sola attesa delle familiari sillabe dei cognomi. Il gusto moriva, le bocche si aprivano nel malsano torpore dell’attesa.” da Quello che rimane di Paula Fox.
O come ombra e L come luce
Luce bianca
All’alba entrai
in un piccolo cimitero.
Fu in un paese lontano
ai piedi di una torre grigia
senza più voce alcuna
di campane –
mentre ancora la nebbia
inargentava
le querce oscure,
le siepi alte,
l’erica
viola –
Nel piccolo cimitero
le pietre
volte all’Oriente
come in un riso
bianco
parevano visi di ciechi
che allineati marciassero
incontro al sole.
Antonia Pozzi, 1933
O come Ofelia
John William Waterhouse
John Everett Millais
Jules Joseph Lefebvre
Henri Gervex
Georges Jules Victor Clairin
Richard Redgrave
Arthur Hughes
Paul Albert Steck
« Oh, qual nobile mente è qui sconvolta!
Occhio di cortigiano,
lingua di dotto, spada di soldato;
la speranza e la rosa del giardino
del nostro regno, specchio della moda,
modello d’eleganza,
ammirazione del genere umano,
tutto, e per tutto, in lui così svanito!…
E io, la più infelice e derelitta
delle donne, ch’ho assaporato il miele
degli armoniosi voti del suo cuore,
debbo mirare adesso, desolata,
questo sublime, nobile intelletto
risuonare d’un suono fesso, stridulo,
come una bella campana stonata;
l’ineguagliata sua forma, e l’aspetto
fiorente di bellezza giovanile
guaste da questa specie di delirio!…
Me misera, che ho visto quel che ho visto,
e vedo quel che seguito a vedere! »
da Amleto (monologo di Ofelia) di Shakespeare
O come oboe
O come OZ
“Se qualcuno avesse detto a Dorothy che presto, anzi prestissimo, avrebbe sentito tanta struggente nostalgia delle praterie del Kansas, forse la bambina non ci avrebbe creduto.
Insieme allo zio Henry e alla zia Em, Dorothy abitava in una catapecchia di legno nel bel mezzo delle più vaste, sperdute e grigie lande americane. Intorno niente altro che l’immensa pianura, che da ogni lato arrivava fino alla fine dell’orizzonte senza che mai – ma proprio mai – una casa o un albero interrompessero la monotonia. Il sole a picco inaridiva i campi, la terra e ogni singolo filo d’erba, al punto da trasformare tutta la brughiera in un’unica e informe distesa grigia.
Lo zio Henry, che faceva il fattore, e la zia Em, che faceva la moglie del fattore, avevano portato da molto lontano le assi di legno che erano servite per costruire le quattro pareti, il pavimento e il tetto di quel bugigattolo di casa. Un tempo era stata verniciata di un bel colore vivace, chissà quale però, il sole lo aveva infatti disseccato e la pioggia consumato. Ora anche la casetta era smorta e grigia come il resto del paesaggio.
Eccola lì al centro dell’immensa prateria: un’unica stanza con una vecchia cucina di ghisa arrugginita, una dispensa per i piatti, un tavolo, tre o quattro sedie e i letti: in un angolo quello grande degli zii, in un altro quello piccolo di Dorothy.”