M come mostrare

“Siamo muti nel mondo, a meno che, in un certo senso, non riveliamo le nostre storie, rendendole manifeste quanto i nostri gesti e i nostri vestiti. Se mostriamo poco, finiamo per restare intrappolati all’interno dei nostri racconti, isolati dagli altri.” Paula Fox dalla prefazione a La visitatrice di Maeve Brennan.

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Saul Steinberg

H come hotel

“Clara pensò che certamente non potevi salvare nessuno, perlomeno non nelle stanze d’albergo, posti che non appartenevano ad anima viva, luoghi d’interruzione, di refrattarietà alla vita di tutti i giorni dove lo spirito vacilla, si fa desolato, intirizzito, ma la carne si scalda, infiammata, irritata dall’odore licenzioso che sembra emanare dal letto, dalla vasca e dal cuscino di chiunque, dal bastardo rifugio di tutti.” da Il silenzio di Laura di Paula Fox

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Edward Hopper

I come irragionevole

Uno

Drink

Clara Hansen, in bilico sul bordo di una sedia, la schiena dritta e solo la biancheria intima addosso, era ferma immobile. Tra poco avrebbe dovuto accendere una luce. Finire di vestirsi. In quello stato così prossimo al sonno, si sarebbe concessa altri tre minuti nel suo appartamento ormai buio. Si voltò a guardare un tavolo su cui era posata una piccola sveglia. Tutt’ a un tratto un’agitazione tormentosa la fece scattare in piedi. Avrebbe fatto tardi: gli autobus non erano affidabili. Non poteva permettersi un taxi fino all’albergo dove sua madre, Laura, e il marito di lei, Desmond Clapper, la stavano aspettando per un aperitivo seguito dalla cena. La mattina successiva i Clapper sarebbero partiti in nave diretti in Africa, questa volta. Sarebbero stati via diversi mesi. Clara si era organizzata in modo da uscire dall’ufficio dove lavorava con una mezz’ora di anticipo, per prendersela comoda. Ma poi se l’era presa comoda standosene lì trasognata, assente a se stessa.

Con rapidità raggiunse la sua cameretta, dove c’era l’abito steso sul letto. Il capo migliore che possedesse. Era consapevole che il suo abbigliamento, di regola, era pensato per evitare di attirare l’attenzione. Ma per quella sera aveva fatto una scelta irragionevole. Laura avrebbe notato che il vestito era costoso. Facesse pure, si disse Clara, ma si sentì tutt’altro che decisa appena la seta aderì alla pelle.

Qualche goccia di pioggia scivolò lungo le finestre mentre attraversava il soggiorno. Accese una luce per tornare in sé e, per un breve momento, fu come se la serata fosse già finita e lei fosse già rientrata, rincuorata di fronte all’evidenza che, appena Laura non c’era più, non doveva per forza pensarla. Dopo tutto le occasioni per incontrarsi erano talmente rare.

Erano i primi di aprile e faceva ancora freddo, ma Clara si infilò un impermeabile leggero. Era frusto e sudicio, dunque perfetto per un certo suo proposito – ripudiare il vestito – di cui era solo vagamente consapevole.

In albergo avrebbe trovato anche Carlos, suo zio. E Laura al telefono le aveva detto che un amico editor li avrebbe raggiunti per quella rimpatriata prima della partenza. Clara l’aveva incontrato una volta molto tempo addietro e non aveva nessuna particolare opinione su di lui. Mentre percorreva la strada, vide giungere l’autobus e si precipitò verso la fermata. Immediatamente, neanche fosse stato innescato dai suoi passi affrettati, si sentì scuotere da un profondo senso di angoscia, lo stato d’animo con cui si inoltrava sempre nel territorio materno.

Da Il silenzio di Laura di Paula Fox

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O come odore

“Era come una stazione degli autobus, un posto abbandonato, con i sedili tipo le carrozze dei vecchi treni della B.&O., le piattaforme della metropolitana, le stazioni della polizia. Univa insieme la caratteristica aleatoria e l’atmosfera caotica di un terminal pubblico con la sensazione di terrore che si percepisce immediatamente all’ultima tappa prima di una catastrofe.

Era un buco tetro, che puzzava di cuoi sintetico e disinfettante, ed entrambi gli odori sembrava venissero dal materiale graffiato e rovinato dei sedili allineati su tre pareti. Puzzava delle ceneri di tabacco che inondavano i due portacenere di metallo pensili. Sull’orlo cromato di uno dei due, splendeva un mozzicone umido di sigaro simile a un pezzo di carne masticata. C’era l’odore dei gusci delle noccioline e delle carte cerate di caramelle che imbrattavano il pavimento, l’odore di vecchi giornali, secco, d’inchiostro, soffocante come quello di un urinale, l’odore di sudore d’ascelle e di inguini e di schiene e di facce, che si spandeva e seccava nell’aria priva di vita, l’odore di vestiti-dei detergenti di cui erano imbevuti i tessuti che si diffondevano orrendamente nell’aria calda e dolciastra, pungendo le narici come spine-tutte le essudazioni della pelle umana, un bouquet di essenza animale, che fluiva intorno, si seccava, ma lasciava nella stanza un peculiare e inestirpabile odore di disperazione, come se le sostanze chimiche si fossero trasformate in puro spirito, in una sorta di particolare ascensione.

A ridosso della quarta parete era sistemato un tavolo traballante sul quale c’erano alcune riviste malandate. Le pagine di una svolazzavano per la folata di calore proveniente dallo sfiatatoio di una scatola di metallo sospesa al soffitto. La luce che arrivava dalle lampade del soffitto era acre e accecante come un respiro malato.

In quella stanza c’era un’evidente confusione dei sensi. L’odore diventava colore, il colore diventava odore. Il muto fissava il muto così intensamente che avrebbero potuto ascoltarsi con gli occhi, e l’ascolto diventava innaturalmente acuto, pur nella sola attesa delle familiari sillabe dei cognomi. Il gusto moriva, le bocche si aprivano nel malsano torpore dell’attesa.” da Quello che rimane di Paula Fox.