S come sentire

“Qui in città, a New York, vedo bambini che piangono di autentica stanchezza, e a volte anche solo di autentico cattivo umore. Ma ogni tanto mi capita di vederne uno che piange di una disperazione assoluta, e mi sembra che quello sia uno dei suoni più veri che un bambino è in grado di emettere. In questi casi ho la sensazione di sentirmi dentro il rumore del cuore che si spezza, come fuori all’aria aperta uno potrebbe sentire – in condizioni molto particolari e precise – il granoturco che cresce nei campi della mia infanzia. Ho conosciuto molte persone, perfino nel Midwest, pronte a dirmi che non si può sentire il granoturco crescere, ma si sbagliano. Gli altri non sentono il mio cuore che si spezza, questo lo so, è vero, ma per me il suono del granoturco che cresce e del mio cuore che si spezza sono tutt’uno. Mi è capitato di scendere dalla metropolitana apposta per non dover sentire un bambino piangere in quel modo.” da Mi chiamo Lucy Barton di Elisabeth Strout

S come scrivere II

” Non scrivevo poesia e prosa perché il lettore mi trovasse simpatica, ma perché le parole che inventavo comunicassero idee di verità e di meraviglia, le stesse che comunicavano a me mentre scrivevo.”

” La storia di una vita è come una festa molto informale ove non esistono regole di precedenza e di ospitalità, né inviti.”

“Senza mitologia, un romanzo non è niente. Il vero romanziere, colui che considera la propria opera un poema ininterrotto, è un creatore di miti, e il miracolo dell’arte consiste nei modi ogni volta diversi di raccontare una storia; e ogni metodo è per sua natura mitologico.”

“Spesso mi domandano dove trovo le idee per i miei romanzi; l’unica risposta è che per me la vita è così, si tramuta in un’esperienza immaginaria che soltanto io posso riconoscere.”

da Atteggiamento sospetto di Muriel Spark

D come dopo

” Ora io e Anne Marie siamo rimasti soli. È una donna forte, ma è stanca, e ha bisogno di me. Anch’io in qualche modo ho bisogno di lei. Anch’io sono molto stanco.

Non mi dà pace il pensiero che negli ultimi tempi, i rapporti fra me e mio fratello erano così freddi. A dire il vero erano freddi fin dal primo giorno che sono arrivato qui. Tante volte veniva e mi proponeva di fare una passeggiata con lui e io rifiutavo. Cosa darei adesso per averlo davanti, alzarmi in piedi e seguirlo. Rifiutavo, freddamente e forse quasi sgarbatamente. È successo anche il giorno prima che morisse. Quando accettavo di uscire con lui, d’altronde, camminavamo scambiandoci poche parole e fredde. Per ritrovare dei rapporti lieti e confidenziali, fra lui e me, devo tornare indietro di anni e anni.

Ieri, Anne Marie e io siamo andati al cimitero. La tenevo a braccetto. Piangeva, ma anche quando piange non smette di sorridere. È un sorriso che non arriva né alle guance né agli occhi, resta fermo fra il mento e le labbra. Quando siamo tornati a casa, io mi sono seduto in cucina, lei mi è venuta vicino e mi ha accarezzato la testa. Allora ho posato la testa contro il suo grembo, magro e vestito di lana nera. Mi ha fatto il tè di menta, quel maledetto tè di menta che è la sua mania. Poi abbiamo riscaldato e mangiato un pezzo d’arrosto che aveva cucinato la signora Anne Marie era seduta davanti a me e mangiava, composta, vestita di nero, col suo lungo collo, le sue spalle gracili, il suo sorriso. Non parliamo mai di mio fratello, Anne Marie e io. Parliamo di cose giornaliere, la spesa, la lavatrice, la signora Mortimer, e parliamo dei problemi di Danny, del carattere di Chantal. Non abbiamo molti argomenti di conversazione, salvo questi, che d’altronde si esauriscono subito. Ma non è importante avere dei temi di conversazione, mi ha detto una volta Ignazio Fegiz, due persone possono stare insieme senza avere gran temi di conversazione e senza cercarli, ciascuno immerso nei propri pensieri, in un mezzo silenzio.” da La città e la casa di Natalia Ginzburg

P come Pistoia

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“Che città, a quei tempi, Pistoia: viatici, funerali, campane a morto, campane a festa, fanfare, bisbigli, bisbigli, bisbigli; e monti, bellissimi, turchini, a cingerla da est a ovest, alitando, quella pungevolezza d’aria odorosa, un frizzo incitante; e venditori ambulanti: «Bollenti che fumano…: chi ne mangia uno, ne mangia due…», e mendicanti sullo zoccolo di monumenti equestri, o sui gradini delle chiese. Uno, Cianino, passava il lunedì; era piccolo come un vecchio bimbo ridente. Ripeteva il mio babbo: «Finché esisterà un solo mendicante…». Vecchia frase? Frase fatta? Ma il suo ardore era nuovo; e intatta la sua fede:«…nessuno avrà il diritto d’essere felice».

E i nomi di alcune strade. Via del “T”, via del Pizzicore, via Abbipazienza…; e il giardino pubblico di piazza Mazzini, col busto di Cino: una pena a vedergli il naso rotto, a lui, un poeta; e l’ora rituale del passeggio, al tramonto, con le ragazze da marito, due passi avanti alle mamme e alle zie; e i tanti odori. Ma esisteranno ancora? Ogni terrazza versava torrenti di glicine; e che gara, fra chi aveva orti e giardini, per la piantina che nessuno ce l’ha, reseda, vaniglia…Mai più visti mughetti così veementi e altrettanto carichi di profumo. […]

E poi la chiesa della Madonna. Quella cupola che, quasi incombente sulla mia casa, mi persuadeva della sua magia, senza che ne comprendessi la bellezza. E i disgeli, all’inizio della primavera, che rigavano di bianco diamante i miei monti. E la scoperta, dico scoperta, di alcuni fiori.

[…]Basterebbe una strada, via Ripa del Sale, a farmi tenere tutta la città in mezzo al petto. In pendio, stretta, linda, come se ogni passante fosse il primo, ambiziosa di un’antichità ben custodita; e il passo vi risonava facendo cantare il lastrico.” da Ritratto in piedi di Gianna Manzini

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Grazie per la foto a Carlo Rossi e al suo bellissimo blog, Territori del ‘900

Z come zitella

“So che cosa sono. Non sono cieca. Non ho mai avuto una proposta di matrimonio, né una storia d’amore o un’avventura, nessun’esperienza più interessante che sorvegliare i miei studenti per assicurarmi che non copiassero durante il compito di latino: la classica vecchia prof. Ci sono migliaia di barzellette sulle insegnanti come me. Nessuna divertente. A volte mi accorgo che le persone mi giudicano e mi scartano ancora prima che abbia finito di parlare, come se ciò che sono emergesse più chiaramente di qualsiasi cosa io possa decidere di dire. Vedo che distolgono lo sguardo da me e lo puntano altrove. Credono che non me ne renda conto? Ho sempre sospettato che quello che gli altri ottengono così facilmente non sia destinato a me. Sono stata dimenticata, mi è stato negato qualcosa. E la cosa peggiore è che ne sono cosciente.” da L’amore paziente di Anne Tyler

 

P come poco

“Quando erano sole, di solito erano felici, nonostante l’aria squallida che emanava dal loro pallore, dalla loro serietà e dalla loro miseria. Avevano così poco, sapevano così poche cose, erano state in così pochi posti e avevano incontrato così poche persone, le loro esistenze erano tanto vuote che non avevano ancora imparato ad avere molti desideri. Durante la guerra le loro scuole erano state sfollate in campagna. Ma loro non ci erano andate, ed erano state istruite dalla madre. Questa si vantava, non senza fondamento, che esse sapessero più di storia, geografia, matematica e religione  di quanto non avrebbero appreso in qualsiasi scuola. Ma nel vicinato non erano rimasti altri bambini, e così, per divertirsi, dovevano contare unicamente su loro stesse. Non litigavano e non bisticciavano mai e andavano quasi sempre d’accordo. […]

Questo viaggio a Pendizack era la più grande avventura della loro vita. Ne erano addirittura stordite, come se una fiaba fosse divenuta improvvisamente realtà. Una settimana prima avrebbero creduto impossibile avere degli amici come i Gifford. Ora sembrava scomparsa la barriera fra il possibile e l’impossibile.” da La festa di Margaret Kennedy

M come maschera

” Non riuscivo proprio a capire perché Louise si ostinasse a volermi frequentare. Le ero antipatico e sapevo per certo che alle mie spalle, in quel suo modo così delicato, non perdeva occasione di dire qualcosa di spiacevole sul mio conto. Era troppo raffinata per fare apprezzamenti diretti: le bastava un’allusione, un sospiro, un rapido gesto delle belle mani per far capire cosa pensasse. Era maestra nella lode insincera. Ci conoscevamo molto bene, da venticinque anni, ma non credo che questo avesse un qualche peso: mi considerava rozzo, brutale, cinico e volgare. E allora perché non mi lasciava perdere? Invece mi tartassava: mi invitava continuamente a pranzo e a cena, e una o due volte all’anno anche a trascorrere un fine settimana nella sua casa di campagna. Ma alla lunga scoprii le sue ragioni. Nutriva l’odioso sospetto che non la prendessi sul serio, e per questo cercava la mia compagnia: non poteva sopportare che io, e io soltanto, la considerassi una commediante. Non avrebbe avuto requie finché non avessi ammesso il mio errore e la mia sconfitta. Forse intuiva che io vedevo dietro la sua maschera e, siccome ero il solo a non cascarci, quella maschera si era prefissa di farmela accettare. Non ebbi mai la certezza che la sua fosse un’impostura totale; mi chiedevo se ingannasse se stessa in maniera assoluta come ingannava il mondo, o se nel suo intimo vi fosse una scintilla divertita. Se c’era, forse Louise era attratta da me, come si attraggono tra di loro i furfanti, perché eravamo gli unici a condividere quel segreto.” da Storie ciniche di W.Somerset Maugham

ZOM

I come impresa

” Quando abbiamo traslocato nel nuovo quartiere, tutto era completamente brullo: distese di terra incolta e rocce in frantumi, consumate dall’erosione. C’erano palazzoni moderni ovunque e scavi per le fondamenta mezzi pieni di acqua giallognola. Solo molto più tardi è apparso qualche cespuglio basso e rado. Gli edifici si affacciavano proprio sul mare: soffiava sempre un gran vento e non c’era modo di creare un angolino protetto nei giardini. Le persone avevano addirittura rinunciato a seminare le viole del pensiero. La mamma, invece, fu la prima a tentare l’impresa: voleva piantare addirittura alberi, rischiando di passare per matta. La gente si accontentava di uno spiazzetto di erba o al massimo di una misera siepe (per potersi sdraiare a prendere il sole e godersi la brezza quei due o tre giorni in tutta l’estate). Ma lei piantava laburni, aceri, frassini e altri arbusti dietro la nostra abitazione, al riparo. E non si arrese mai, nemmeno quando fu costretta a ficcare i virgulti, per così dire, fra le pietracce.

L’estate dopo, papà aveva costruito la serra sul lato sud della casa. Ci facevamo crescere le piantine, poi le trapiantavamo in giardino durante la prima o la seconda settimana di giugno, quando il pericolo delle gelate notturne era ormai scongiurato. All’inizio pensavamo di metterle fuori solo per la bella stagione e di riportarle dentro in seguito, ma se l’autunno era mite potevamo decidere di tenerle all’aperto per un altro mesetto. Finché, un inverno, non le abbiamo lasciate riposare sotto due metri di neve. E fu così che alla fine, nel giardino della mamma, cominciò a germogliare di tutto: perché tutto, nelle sue mani, cresceva. A poco a poco quel fazzoletto di terra si era trasformato in un giardino incantato, che attirava gli sguardi e lasciava di stucco.” da Rosa Candida di Audur Ava Olafsdottir

C come contraddizione

“Erano esseri umani qualunque alla luce opaca di un albume alla coque, senza grazia, senza rivelazione, un miscuglio di contraddizioni, di facili princìpi: bisticciavano per cose in cui credevano per metà o in cui non credevano affatto, desideravano le comodità e una spartana austerità, l’autenticità e la posa, il calore della famiglia e la fuga dalla medesima. Volevano il formaggio e la cioccolata, ma sognavano anche di buttar fuori quegli stramaledetti prodotti stranieri. Volevano un amore folle che li proiettasse in cielo ma anche un amore tutto riso e dal, benedetto dal tran tran quotidiano, in cui le sorprese derivassero da qualcosa di assolutamente consueto, come sposare la figlia o il figlio del migliore amico di papà e lamentarsi del prezzo delle patate e delle cipolle. Desideravano ogni contraddizione che la storia aveva messo a loro disposizione, ogni contraddizione che avevano ereditato. Ma soprattutto, naturalmente, desideravano la purezza e l’assenza di contraddizioni.” da Eredi della sconfitta di Kiran Desai

M come morte

“Fu un’estate strana, soffocante, l’estate in cui i Rosenberg morirono sulla sedia elettrica, e io ero a New York e mi sentivo come un’anima persa. Io le condanne a morte non le reggo. L’idea della sedia elettrica, poi, mi far star male fisicamente, e i giornali non parlavano d’altro: titoloni che mi guardavano fisso a ogni angolo di strada e all’imboccatura di ogni stazione della metropolitana con quell’odore di noccioline stantie. Non che mi riguardasse, ma non potevo fare a meno di domandarmi che effetto faceva, essere bruciati vivi lungo tutti i nervi.

Deve essere la cosa più orrenda che esiste, pensavo.

New York era uno schifo. alle nove di mattina la frescura finto-agreste che bene o male stillava durante la notte era già evaporata come le scene finali di un bel sogno. Grigie come miraggi sul fondo dei loro canyon di granito, le strade roventi tremolavano al sole, i tetti delle macchine sfrigolavano e luccicavano e la polvere secca come cenere mi entrava negli occhi e in gola.

A furia di sentir parlare dei Rosenberg alla radio e in redazione, non riuscivo più a togliermeli dalla testa. Come la prima volta che avevo visto un cadavere. Dopo, per settimane, la sua testa (o quello che ne restava) aveva continuato ad affiorare dietro le uova e pancetta a colazione e dietro la faccia di Buddy Willard, che era poi quello che mi aveva fatto vedere il cadavere, e alla fine avevo l’impressione di portarmela dietro dappertutto legata a uno spago, come un palloncino nero senza naso, puzzolente di aceto.” da La campana di vetro di Sylvia Plath