I come India II

Vi propongo altre splendide foto di Christian Tragni.

Ed ecco la storia che le accompagna: “Un luogo dove centinaia di lavoratori sottopagati indiani smontano, praticamente solo con le mani, petroliere, navi da guerra ed in generale navi fatte di materiali pericolosi. La percentuale, tra i lavoratori, di morte per tumore, è altissima. La maggioranza delle navi provengono dall’Europa e dagli Stati Uniti. Il luogo è di difficile accesso e la maggioranza delle foto sono andate perse a causa dell’intervento delle guardie private locali.”

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I come impresa

” Quando abbiamo traslocato nel nuovo quartiere, tutto era completamente brullo: distese di terra incolta e rocce in frantumi, consumate dall’erosione. C’erano palazzoni moderni ovunque e scavi per le fondamenta mezzi pieni di acqua giallognola. Solo molto più tardi è apparso qualche cespuglio basso e rado. Gli edifici si affacciavano proprio sul mare: soffiava sempre un gran vento e non c’era modo di creare un angolino protetto nei giardini. Le persone avevano addirittura rinunciato a seminare le viole del pensiero. La mamma, invece, fu la prima a tentare l’impresa: voleva piantare addirittura alberi, rischiando di passare per matta. La gente si accontentava di uno spiazzetto di erba o al massimo di una misera siepe (per potersi sdraiare a prendere il sole e godersi la brezza quei due o tre giorni in tutta l’estate). Ma lei piantava laburni, aceri, frassini e altri arbusti dietro la nostra abitazione, al riparo. E non si arrese mai, nemmeno quando fu costretta a ficcare i virgulti, per così dire, fra le pietracce.

L’estate dopo, papà aveva costruito la serra sul lato sud della casa. Ci facevamo crescere le piantine, poi le trapiantavamo in giardino durante la prima o la seconda settimana di giugno, quando il pericolo delle gelate notturne era ormai scongiurato. All’inizio pensavamo di metterle fuori solo per la bella stagione e di riportarle dentro in seguito, ma se l’autunno era mite potevamo decidere di tenerle all’aperto per un altro mesetto. Finché, un inverno, non le abbiamo lasciate riposare sotto due metri di neve. E fu così che alla fine, nel giardino della mamma, cominciò a germogliare di tutto: perché tutto, nelle sue mani, cresceva. A poco a poco quel fazzoletto di terra si era trasformato in un giardino incantato, che attirava gli sguardi e lasciava di stucco.” da Rosa Candida di Audur Ava Olafsdottir

I come intrecci

Mostra Goshka Macuga alla Fondazione Prada di Milano

 Per chi è a Milano fino al 19 Giugno alla Fondazione Prada, la stimolante mostra dell’artista polacca, Goshka Macuga, The Son of Man who Ate the Scroll, in cui Macuga affianca i propri lavori a quelli di altri famosi artisti. La mostra si articola in diverse zone della Fondazione: ecco alcune immagini della cisterna.Goshka-Macuga-12-ok-590x443

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Goshka Macuga

E sotto (poche) altre immagini della mostra.

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I come irragionevole

Uno

Drink

Clara Hansen, in bilico sul bordo di una sedia, la schiena dritta e solo la biancheria intima addosso, era ferma immobile. Tra poco avrebbe dovuto accendere una luce. Finire di vestirsi. In quello stato così prossimo al sonno, si sarebbe concessa altri tre minuti nel suo appartamento ormai buio. Si voltò a guardare un tavolo su cui era posata una piccola sveglia. Tutt’ a un tratto un’agitazione tormentosa la fece scattare in piedi. Avrebbe fatto tardi: gli autobus non erano affidabili. Non poteva permettersi un taxi fino all’albergo dove sua madre, Laura, e il marito di lei, Desmond Clapper, la stavano aspettando per un aperitivo seguito dalla cena. La mattina successiva i Clapper sarebbero partiti in nave diretti in Africa, questa volta. Sarebbero stati via diversi mesi. Clara si era organizzata in modo da uscire dall’ufficio dove lavorava con una mezz’ora di anticipo, per prendersela comoda. Ma poi se l’era presa comoda standosene lì trasognata, assente a se stessa.

Con rapidità raggiunse la sua cameretta, dove c’era l’abito steso sul letto. Il capo migliore che possedesse. Era consapevole che il suo abbigliamento, di regola, era pensato per evitare di attirare l’attenzione. Ma per quella sera aveva fatto una scelta irragionevole. Laura avrebbe notato che il vestito era costoso. Facesse pure, si disse Clara, ma si sentì tutt’altro che decisa appena la seta aderì alla pelle.

Qualche goccia di pioggia scivolò lungo le finestre mentre attraversava il soggiorno. Accese una luce per tornare in sé e, per un breve momento, fu come se la serata fosse già finita e lei fosse già rientrata, rincuorata di fronte all’evidenza che, appena Laura non c’era più, non doveva per forza pensarla. Dopo tutto le occasioni per incontrarsi erano talmente rare.

Erano i primi di aprile e faceva ancora freddo, ma Clara si infilò un impermeabile leggero. Era frusto e sudicio, dunque perfetto per un certo suo proposito – ripudiare il vestito – di cui era solo vagamente consapevole.

In albergo avrebbe trovato anche Carlos, suo zio. E Laura al telefono le aveva detto che un amico editor li avrebbe raggiunti per quella rimpatriata prima della partenza. Clara l’aveva incontrato una volta molto tempo addietro e non aveva nessuna particolare opinione su di lui. Mentre percorreva la strada, vide giungere l’autobus e si precipitò verso la fermata. Immediatamente, neanche fosse stato innescato dai suoi passi affrettati, si sentì scuotere da un profondo senso di angoscia, lo stato d’animo con cui si inoltrava sempre nel territorio materno.

Da Il silenzio di Laura di Paula Fox

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I come imperfezione II

“Ho un modo di lavorare molto poco tecnologico. Matite per creare irregolarità, poi i lavori artistici più rifiniti sono un misto di acquerello, tempera e inchiostro. Sono sicura che molto di quello che faccio sarebbe più facile se usassi alcuni programmi al computer,  ma quello che non mi piace in molte illustrazioni contemporanee è che sono troppo perfette. Anche se sono una perfezionista ci sono molte irregolarità  leggere  e difetti e questo è bello. Sembra fatto a mano.”

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“Mi piace molto la grafica. E’ la stessa ragione per cui mi diverto a disegnare la facciata dei negozi: mi piace il misto di colori, dettagli, segni e scritte. Questo da una forza, un’energia grafica. Tutte le volte che faccio la copertina di un libro scrivo con i miei caratteri. E’ qualcosa che risulta molto bello quando è preciso così è un’area  dove posso sfogare le mie fisse, le mie tendenze perfezioniste!” Emily Sutton